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Una questione di adattamento

Ieri ho finito di tradurre un libro bellissimo, che ho inseguito con cocciutaggine e ho ottenuto in maniera un po’ rocambolesca.

Mentre ci lavoravo, non ho scritto niente, neppure un post. Probabilmente perché questo romanzo non mi ha costretta a farmi domande sui massimi sistemi traduttivi. Stavolta la vera difficoltà era restituire la semplicità di una lingua molto misurata, quasi dimessa, ma precisa, affilata, a tratti fredda ma che, al tempo stesso, colpisce e affonda. Una lingua che, quando ho letto il romanzo, molto prima di sapere che avrei voluto tradurlo e che lo avrei tradotto, mi aveva fatto pensare a Maylis de Kerangal.

Per me, che sguazzo in registri totalmente diversi, è stata una sfida interessante. Ho dovuto avvicinarmi a un grado quasi zero della scrittura, asciugare, lavorare di sottrazione.

Perché tradurre narrativa significa, prima di tutto, adattarsi, in maniera quasi camaleontica. Significa cogliere le voci e tentare di riprodurle, di restituirle – le voci, la voce, mi toccherà scrivere qualcosa prima o poi sull’argomento, che è il cuore di tutta la faccenda. Significa grattare, fino a trovare registri che nemmeno sapevamo di avere e che magari non avevamo, ma che pian piano, tentativo dopo tentativo, ci costruiamo e, fosse anche per lo spazio di un libro, facciamo nostri.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.