Nei giorni scorsi ho letto un libro che forse tradurrò o forse no (aspetto una risposta e i tempi dell’editoria sono spesso lenti, soprattutto per gente che, come me, non ha ricevuto il dono della pazienza nella culla) e a un certo punto ho pensato: Oh no, qua dovrò fare delle concessioni!
C’è un momento in cui, out of the blue, una tipa started making arancini.
Ora, presumo che tutti siate al corrente dell’annosa quanto futile – poi spiegherò perché è futile – diatriba arancini vs. arancine. In sintesi, a Palermo le chiamiamo arancine, mentre a Catania le chiamano arancini. E per ragioni inspiegabili, nel resto d’Italia ha preso piede la variante catanese, nel senso che ha vinto il maschile.
Anche l’Accademia della Crusca si è espressa sulla questione. Ma, come anticipavo, per me è una diatriba futile che non avrebbe nemmeno ragione di esistere, per il semplice fatto che l’arancina e l’arancino sono due cose diverse. Non solo per la forma – tonda l’arancina, a punta l’arancino – ma, cosa più importante, perché sono diversi gli ingredienti. Per dire, dentro l’arancina (femmina) ci troverete macinato e piselli; dentro l’arancino (maschio) ragù a pezzi e formaggio filante. Ma vabbè. Sono sottigliezze più campanilistiche che culinarie.
In ogni caso, resta il problema di cosa scrivere in traduzione: arancine o arancini? E dopo aver verificato, spulciando ricette online, che in UK non fanno né arancine né arancini ma delle robe che solo al pensiero mi si spappola il fegato, sono giunta alla conclusione che, pur se con la morte nel cuore, scriverei arancini, al maschile. Perché sebbene entrambe le varianti siano riportate dai dizionari, una è dominante, mentre l’altra tradisce le mie origini – oltre che le mie fisime, portandosi appresso un pesantissimo residuo biografico. E il traduttore, si sa, dev’essere invisibile, o per lo meno, deve provarci – l’invisibilità non esiste, è una leggenda metropolitana, ma è un discorso troppo lungo, e non è questa la sede né il momento di affrontarlo.
DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.