Nei giorni scorsi, ho cominciato una nuova traduzione. Un bel romanzo d’esordio, francese, che ho inseguito fino ad accaparrarmelo. E mi è successa una cosa che ho sempre desiderato, ma che mai, nemmeno nei miei sogni più sfrenati, avrei pensato si sarebbe realizzata, ovvero: quando dalla casa editrice mi hanno chiamata per affidarmi il libro, abbiamo discusso nel dettaglio la mia prova, gettando così le basi per il lavoro a venire.
Pensateci, è una cosa sensata – oltre che molto utile. Ogni traduttore, così come ogni revisore, ha pregi, difetti, preferenze, idiosincrasie e perfino fisime. E giocare a carte scoperte fin dall’inizio, per come la vedo io, facilita il lavoro a tutti.
Aver vivisezionato, insieme alla persona che si occuperà della revisione, le prime dieci-quindici pagine del romanzo, mi permette di muovermi con una certa consapevolezza. Per esempio, di fronte a dei passaggi “problematici”, riesco già a intuire quali potrebbero essere le perplessità dall’altra parte, di fronte a certe mie scelte, perciò o correggo il tiro, o spiego a monte qual è stato il ragionamento che mi ha portata a scrivere una cosa piuttosto che un’altra.
Ripeto: io procedo più spedita e presumo che, allo stesso modo, procederà più spedito il revisore. E più si procede spediti, più il risultato finale sarà riuscito.
Come dicevo all’inizio, ho sempre desiderato di fare una cosa del genere, ma non mi era mai capitato prima. E non solo perché purtroppo i tempi dell’editoria sono frenetici, perché si lavora sempre sul filo del rasoio, in una perenne corsa contro il tempo – con tutto ciò che comporta in termini di qualità – ma anche e soprattutto perché raramente quando si assegna una traduzione si sa chi la rivedrà.
Ma chissà, forse un’altra editoria è possibile.
DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.