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Un divano è un divano è un divano

In linea generale – e badiamo bene, là dove c’è una regola o anche solo un criterio generale, c’è sempre almeno un’eccezione – penso che i nomi, cioè i sostantivi – ma non quelli astratti – vadano via abbastanza lisci, senza creare chissà quali rogne. Eppure.

Attenzione, trigger warning: filosofi del linguaggio e bimbi di Wittgenstein, non continuate a leggere o potreste avere un malore.

Una sedia è una sedia, no? Dipende. Perché, per esempio, chair può sì essere una sedia, ma può anche essere una poltroncina. Una casa è una casa, giusto? Insomma. Perché se io ti dico come to my home, ti sto sì invitando a casa mia, ma casa mia potrebbe essere un appartamento, un castello o perfino una palafitta. Se invece ti dico come to my house, ti sto ancora invitando a casa mia, ma sto facendo qualcosa di più, ti sto dando anche informazioni sul tipo di posto dove abito, che non è un appartamento, né un castello e neppure una palafitta.

Questi però, il più delle volte, non sono problemi insormontabili. Nella stragrande maggioranza dei casi, come dicevo prima, vanno via abbastanza lisci, un po’ per mestiere, un po’ perché probabilmente il testo ci offre una serie di indizi che ci aiutano a imbroccare la strada giusta.

D’altro canto, non tutti i nomi sono uguali – e alcuni nomi sono meno uguali di altri.

L’altro giorno, per dire, mi sono imbattuta in un tuxedo couch. Ovviamente, non sapendo di che tipo di divano si trattava, ho fatto quello che fa qualsiasi traduttore ansioso di finire le paginette del giorno e spegnere il pc, ovvero: ho cercato sul dizionario. Naturalmente il bilingue non mi è stato di nessun aiuto, ma il monolingue ha fatto il suo sporco lavoro – o quasi.

Ecco la definizione che dà il Merriam-Wester del tuxedo sofa (o couch che dir si voglia):

an upholstered sofa with slightly curved arms that are the same height as the back

Comincio a farmi un’idea, ma è ancora troppo vaga, quindi il passo successivo è una bella ricerca per immagini – grazie Google, TVB.

E là, avviene il primo cortocircuito. Nella maggior parte delle foto di tuxedo sofa(s) che vedo, i braccioli non mi sembrano curved, nemmeno slightly curved. Penso: sii gentile, Merriam-Webster, non portarmi fuori strada. E nel frattempo mi viene in mente un altro tipo di divano che, per certi aspetti, un po’ somiglia a questo tuxedo sofa, ovvero il Chesterfield.

Sono perfettamente consapevole che si tratta di due modelli diversi, ma almeno ho qualcosa da cui partire, una chiave di ricerca per approfondire. Scopro, cosa che a questo punto non mi stupisce più di tanto, che qua e là esistono articoli dove si mettono a confronto proprio i due modelli. Dunque, il tuxedo è considerato una specie di “cugino” del Chesterfield, e la differenza più evidente tra i due sta proprio nei braccioli: arrotondati o leggermente arrotondati quelli del Chesterfield, squadrati quelli del tuxedo – capito Merriam-Webster?

C’è solo un ma, ed è questo: come cribbio si chiama in italiano questo simpatico tuxedo sofa? Chiaramente non ne ho idea. Online, trovo delle occorrenze per divano tuxedo, ma non fanno molto testo, visto che compaiono quasi esclusivamente su e-commerce di divani e simili. E sono ragionevolmente convinta che il mio lettore ideale (sì, quando traduco ho sempre in mente un lettore ideale che, a suo modo, mi guida in certe scelte), di fronte a un ipotetico divano tuxedo proverebbe un attimo di smarrimento e perplessità, che forse si fermerebbe a chiedersi cosa diamine è un divano tuxedo, perdendo di vista quello che conta davvero in quel punto del libro – spoiler: non è il modello del divano che conta.

Mi chiedo: qual è il peso specifico di questo tuxedo sofa in questo libro, in questa pagina, in questo paragrafo, in questo rigo? Mi rispondo: è un peso specifico trascurabile. Non conta sapere esattamente di che modello di divano stiamo parlando, ma capire cosa veicola quel modello di divano. E cosa veicola, qui e ora? Benessere e un certo privilegio.

E quindi? Che faccio? Ovviamente non cambio modello di divano, sarebbe una scelta arbitraria oltre che immotivata. E visto che non voglio mettere i bastoni tra le ruote al mio lettore ideale – non qui, non ora – decido che il tuxedo sofa diventerà, in italiano, un divano capitonné.

Pur essendo un termine di origine straniera, capitonné è stato da lungo tempo accolto nei dizionari italiani. E benché indichi una specifica lavorazione blablabla, in certi ambiti è diventato quasi un sinonimo di imbottito – e la prima cosa che ci dice il Merriam-Webster, e che ci hanno confermato le immagini, riguardo al tuxedo sofa è che è upholstered, ovvero imbottito. Al mio orecchio, tra l’altro, un divano capitonné, forse per la sua allure francese, evoca benessere e una punta di privilegio.

Va da sé che questa soluzione non sarebbe stata convincente in altri casi. Se, per esempio, la mia protagonista fosse un’arredatrice di interni, intenta a sciorinare modelli di divani a una cliente alle prese con un rinnovo del mobilio, non me la sarei cavata così facilmente. Stavolta mi è andata di lusso, via.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Catching Fire, il “miracolo” della traduzione

Qualche giorno fa ho letto Catching Fire: A Translation Diary di Daniel Hahn. Come recita il sottotitolo, è un diario di traduzione ed è il libro più brillante, onesto e “crudo” che abbia mai letto sull’argomento. Zero fuffa, zero supercazzole, zero elucubrazioni teoriche sui massimi sistemi, ma tanta vita vera – insomma, proprio quello che piace a me.

Daniel Hahn, che traduce narrativa dallo spagnolo, dal portoghese e dal francese, ha raccontato in presa diretta i mesi trascorsi in compagnia di Jamás el Fuego Nunca, romanzo della scrittrice cilena Diamela Eltit (pubblicato in Italia da gran vía, nella traduzione di Raul Schenardi, con il titolo Mai e poi mai il fuoco). Messa così, non sembra un’operazione particolarmente interessante o innovativa, me ne rendo conto. E invece.

Daniel Hahn, infatti, fa qualcosa che nessuno, almeno così mi pare, ha mai osato fare prima: ha squarciato il velo.

Sono ragionevolmente convinta che, fatta eccezione per i traduttori, nessuno sappia cosa succede realmente in quel lasso di tempo – più o meno lungo – che va dal giorno in cui si apre per la prima volta un libro e il relativo documento di Word e quello in cui, finalmente, si allega il lavoro finito alla mail per l’editore. Succede una cosa grossa: dal nulla – o quasi – nasce un libro, o quello che diventerà un libro che, come dice Hahn, è uguale – e allo stesso tempo completamente diverso – dall’originale. Ma non succede dall’oggi al domani. E soprattutto non succede in maniera indolore, se così posso dire.

Apro una piccola parentesi. Da un po’ di tempo, mi ronzava in mente l’idea di scrivere qualcosa per provare a raccontare proprio quel processo non lineare che comincia con una prima stesura spesso raccapricciante e si conclude con una stesura definitiva – o quasi, visto che poi ci sarà anche la revisione. Solo che non ho mai trovato il coraggio di farlo. Perché, ve lo garantisco, per mostrare a qualcuno una prima stesura – ma anche una seconda e, spesso, pure una terza – ci vuole il pelo sullo stomaco.

Io, per dire, di fronte a una mia prima stesura, vorrei sempre e solo piangere, strapparmi i capelli, sbattermi la testa al muro e, sempre, mi dico: ma questa cosa immonda e orripilante diventerà mai dicente? Spoiler: sì. Tutte le volte si compie il miracolo. Miracolo che, però, è il frutto di emicranie, bruciore d’occhi, schiena ingobbita, gambe anchilosate, sporadiche crisi di nervi – e, per chi è particolarmente sfortunato, di tanto in tanto, anche sfoghi cutanei.

Apro un’altra piccola parentesi. Di fronte a quelle mie prime stesure invereconde, mi dico sempre: sicuramente fa così schifo perché io sono una capra, e di certo le prime stesure delle mie amiche e colleghe saranno belline, pulitine, non ci saranno parole e frasi evidenziate ogni due per tre, e tutta una serie di obbrobri inenarrabili. Per farvi capire, quando finisco la prima stesura, io non dico mai: devo cominciare la rilettura ma: ora devo riscriverlo in italiano.

Certo, ognuno di noi lavora in modo diverso. Sono sicura che qualcuno produce prime stesure più dignitose delle mie – o di quelle di Hahn. Ma sono anche abbastanza convinta del fatto che nessun traduttore pensi di averla sfangata quando arriva alla fine di quella fase lì. Del resto, con il tempo e con l’esperienza, ciascuno scopre qual è il metodo che funziona meglio per lui/lei. Io, per esempio, in prima stesura, mi concentro principalmente sulla voce, sul tono. Devo necessariamente stare nel flow, e se mi fermassi ogni mezza riga per fare ricerche, risolvere dubbi, sciogliere nodi, altro che flow. Ci ho provato, non ha funzionato. Amen. In seconda stesura, invece, come dicevo prima, riscrivo in italiano. Quella è la fase in cui, cerco di risolvere gran parte di quello che ho lasciato in sospeso, ma è soprattutto il momento in cui mi concentro sulla forma, sulla fluidità, sulla naturalezza. La terza stesura, che non è più una vera e propria stesura ma una rilettura, è quella in cui limo: affino il lessico (per esempio, scegliendo verbi e aggettivi più pertinenti), il ritmo, vado alla ricerca di allitterazioni e rime interne fastidiose, casso le ripetizioni e via dicendo. A quel punto, resta la quarta e ultima lettura, quella velocissima, quella del lo leggo come se stessi leggendo un libro per puro piacere. Di solito, è una fase abbastanza indolore, quella in cui sistemo le ultime cosette, prima del visto si alleghi.

Sarò sincera. Il processo è logorante. Tutte le volte mi riprometto di cercare di produrre una prima stesura migliore. Giuro che ci provo ma niente, non funziona, non funziono così. Nei momenti di sconforto, mi dico: zia, vai tranquilla, sta schifezza di prima stesura, come sempre, per miracolo – a proposito del miracolo, vedi sopra – diventerà qualcosa di decente.

Dunque, non solo conoscere bene la lingua da cui si traduce, conoscere benissimo quella verso cui si traduce, avere una spiccata sensibilità letteraria, come dicevo qui. Un buon traduttore deve essere paziente, avere i nervi saldi, il suo motto dovrebbe essere calma e gesso, insomma. C’è chi ci nasce, c’è chi (hello world!) deve imparare. Ma o quello o la neuro.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Piccoli scarti culturali

Premessa necessaria: purtroppo, non riesco a svestire mai i panni della traduttrice, neppure quando leggo per puro diletto. Perciò mi capita spesso di starmene lì, con il mio bel romanzetto, convinta di rilassarmi, e invece il mio cervello parte per viaggi lunghissimi – spesso di sola andata.

Nei giorni scorsi, per esempio, stavo leggendo un romanzo francese, e ogni due per tre, come mi succede sempre, mi domandavo: questo come lo tradurrei? Finché uno dei tanti questo come lo tradurrei? mi ha – giustappunto – fatta partire per un lungo viaggio.

Ecco il passaggio “incriminato”:

Est-ce que j’aurais envie de faire du sport en équipe, comprendre qu’on me hurle « Putain, la balle ! », aller dans des pubs partager des small talks, faire carrière dans le marketing, répondre au téléphone avec l’aisance de Cathy+, gérer des équipes, faire des brainstormings, avoir des responsabilités, aller voir des films français.

Un po’ di contesto: la giovane protagonista sta per sottoporsi a un impianto cocleare e immagina una serie di cose che potrà finalmente fare una volta recuperato l’udito. Cose comuni, perfino banali per chi ci sente: fare sport di squadra, fare due chiacchiere al pub, lavorare nel marketing, rispondere al telefono, coordinare un team, partecipare ai brainstorming, avere responsabilità, e andare a guardare film francesi.

Quando sono arrivata a quel punto, ho subito pensato: Eh no, in italiano così non funziona.

E non funziona perché i lettori italiani, per lo più, non sanno – e non sono tenuti a sapere – che in Francia, o almeno a Parigi, al cinema non danno film doppiati (o almeno ne danno pochissimi e in pochissime sale). I film stranieri, quale che sia la lingua, sono proiettati in VOSTF, cioè in versione originale con i sottotitoli in francese. Gli unici film non sottotitolati sono proprio quelli francesi. E questo mi fa supporre che la protagonista vada regolarmente al cinema, a vedere solo film stranieri però, perché essendo sottotitolati può seguirli, cosa che invece le riesce difficile con i film francesi.

Per chi ignora questo dettaglio, questo piccolo scarto culturale, una frase come andare a guardare film francesi non ha molto senso.

In un caso del genere, il traduttore dovrebbe porsi il problema e trovare una soluzione.

Come sempre, di soluzioni possibili ce ne sono tante, alcune più azzeccate (almeno secondo me), altre meno, ma tutte – appunto – possibili.

A qualcuno, per esempio, potrebbe venire in mente di tagliare il passaggio incriminato. Ragionamento: è una lista di cose, il senso si è capito, anche se omettiamo i film va bene uguale. Non sono d’accordissimo. Mi sembra una scelta pigra e ingiustificata.

Qualcun altro, magari, potrebbe pensare di semplificare e scrivere guardare film/andare al cinema (il cinema è sottinteso visto che dice aller voir, senza il cinema di mezzo non ci sarebbe stato aller ma un semplice voir). In questo modo però, mi sembra che il senso venga un po’ travisato: perché quella specifica sui film francesi mi porta a immaginare che la ragazza guardi film – magari solo quelli stranieri al cinema, magari altri a casa, in tv, con i sottotitoli per non udenti.

In un caso del genere, io mi muoverei in un’altra direzione, tentando – nei limiti del possibile – di salvare il salvabile e perdere meno informazioni possibili, e scriverei qualcosa tipo: andare a vedere anche i film senza sottotitoli. Certo, mi direte, qualcosa si perde comunque – ma la perdita è insita nella traduzione, si perde sempre qualcosa; il giochetto consiste nel tentare di bilanciare, di (ri)guadagnare altrove, in un perenne esercizio di equilibrio.

E la NdT? potrebbe dirmi qualcuno – anzi, mi ha detto qualcuno. Diciamo che la NdT è una specie in via di estinzione, generalmente poco amata da editori e redazioni – e io stessa non sono una sua grandissima fan, a meno che non sia davvero necessaria. E in questo caso – ma chiaramente potrei sbagliarmi – mi pare non lo sia.

I libri, i romanzi sono pieni di piccoli scarti culturali come questo, e se tutte le volte inserissimo una NdT non ne usciremmo più. Certo, sarebbe ben diverso se la ragazza fosse un’appassionata di cinema, se quel passaggio avesse un peso specifico importante nell’economia del libro, ma non è questo il caso.


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Frasi semplici che nascondono insidie

La traduzione è un campo minato.

Spesso ci imbattiamo in passaggi in apparenza molto semplici che, però, nascondono diverse insidie.

Prendiamo questa frase:

The deep sea is a haunted house: a place in which things that ought not to exist move about in the darkness.

Non ha nulla di complicato, si capisce, non occorre nemmeno aprire un dizionario. E l’istinto potrebbe portarci a inserire il pilota automatico e a tradurre in modalità versione di latino. In quel caso, otterremmo qualcosa del genere:

Il mare profondo è una casa stregata: un posto in cui cose che non dovrebbero esistere si muovono nell’oscurità.

Ma questa traduzione non va bene: è pigra, sciatta, appiattisce alcune sfumature.

Proviamo a scomporre la frase, ad analizzarla nel dettaglio.

Scegliere di tradurre deep sea con mare profondo è cedere alla pigrizia. Quel deep sea, per me, è altro: sono le profondità marine o, ancora meglio, gli abissi marini.

E dunque: gli abissi marini sono una casa stregata?

Mi disturba il brusco passaggio dal plurale (gli abissi marini) al singolare (una casa stregata). In inglese, ricordiamocelo, era tutto al singolare, ma noi abbiamo trasformato deep sea in abissi marini. Perciò, secondo me, dovremmo continuare con il plurale:

Gli abissi marini sono case infestate.

Suona meglio no? Case stregate o case infestate sono più o meno equivalenti ma – e questa è una considerazione puramente soggettiva – le case stregate mi fanno pensare alle attrazioni dei parchi dei divertimenti, mentre le case infestate mi inquietano di più.

Ora passiamo alla seconda parte:

a place in which things that ought not to exist move about in the darkness.

Visto il ragionamento che abbiamo appena fatto, non un posto nel quale ma posti nei quali, dunque rimanendo ancora fedeli a quel plurale. Ma nei quali suona un po’ antiquato, formale, come in cui, perciò preferirei: posti dove.

E ancora: cose non dovrebbero esistere, giusto? Sicuramente things è cose – non creature o simili. E non c’è alcun motivo valido per intervenire e cambiare, peccando di hybris creativa. D’altro canto, la presenza di ought not to, e non di un più ordinario should not, mi fa drizzare le antenne. E mi spinge a trovare un modo per dargli risalto, perciò: cose che non dovrebbero nemmeno esistere.

Cosa fanno quelle cose che non dovrebbero neppure esistere? Si muovono nell’oscurità? Ni. Non abbiamo un semplice move ma un move about (che potrebbe essere anche un move around), dunque un bel phrasal verb – croce e delizia di qualsiasi traduttore. About, ovviamente, modifica il senso di move: connota quel movimento, lo caratterizza. Perciò quelle cose si aggirano nell’oscurità.

Proviamo a tirare le fila:

Il mare profondo è una casa stregata: un posto in cui cose che non dovrebbero esistere si muovono nell’oscurità.

Ovvero:

Gli abissi marini sono case infestate: luoghi dove cose che non dovrebbero nemmeno esistere si aggirano nell’oscurità.

Non è l’unica né, probabilmente, la migliore traduzione possibile. Ma è corretta e abbastanza fedele, dunque legittima.

Certo, cose e case così vicini disturbano un po’ il mio orecchio sensibile a ripetizioni, allitterazioni e cacofonie varie, ma – per fortuna o purtroppo – tradurre vuol dire anche accettare di scendere a compromessi, di tanto in tanto.


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Gestire gli errori dell’originale

Chiunque abbia una certa confidenza con i libri sa che, da qualche tempo a questa parte, la sciatteria editoriale è diventata la norma. Si va dal banale refuso all’errore grossolano.

Mal comune mezzo gaudio: non è un problema che riguarda solo l’editoria italiana, anzi. E chi traduce lo sa bene, visto che si trova spesso a dover gestire gli errori dell’originale.

I refusi, almeno per il traduttore, sono il minore dei problemi. Se, per esempio, si parla della confraternita Alpha Delt, è presumibilmente saltata la a finale. Perciò, senza troppi scrupoli, io posso ripristinarla, e scrivere Alpha Delta.

Anche le sviste palesi creano pochi problemi. Se, per esempio, si descrive la scena raffigurata in un quadro realmente esistente, basta cercare in rete un’immagine del quadro per un controllo veloce. Perciò, se nell’originale si parla di asini, ma i nostri occhi vedono dei nobili destrieri, be’, anche in quel caso, possiamo correggere a cuor leggero. Ovvio, però, che dobbiamo essere certi, al di là di ogni ragionevole dubbio, che si tratta di una svista. Se a parlare impropriamente di asini è una critica d’arte che tiene conferenze è una cosa, se invece è una svampita che a una cena racconta di essere stata per la prima volta al museo è un’altra.

Le cose cominciano a complicarsi nel caso delle incongruenze interne, che spesso sono figlie di un editing non fatto o fatto male. Può capitare, per esempio, che a pagina 47 Tizio lasci un messaggio in segreteria a Caio e magari, a pagina 52, Caio dica di aver ricevuto un SMS da Tizio. Oppure a pagina 120 Sempronio spiega di aver adibito la seconda camera da letto a studio e di averci anche messo un futon per convertirla in stanza degli ospiti nel caso in cui un amico si fermasse a dormire, ma poi, a pagina 123, si dice che c’è un ospite che non riesce a prendere sonno e si rigira inquieto sul divano del soggiorno. In questi casi, bisogna intervenire. Io, di solito, segnalo il problema alla redazione, e mi assumo la responsabilità di decidere come comportarmi, di volta in volta. Se, per esempio, c’è un intero paragrafo dove leggo che Tizio ha provato più volte a chiamare Caio, ma aveva problemi di segnale e campo, e alla fine riesce comunque a lasciare un breve messaggio in segreteria, tendo a salvare proprio il messaggio in segreteria a scapito del povero SMS. Allo stesso modo, se ho letto che Sempronio ha deciso di adibire la seconda camera da letto a studio, perché ha bisogno di un ambiente dove lavorare, ma ha pensato di metterci anche un futon, nel caso in cui uno dei figli o dei nipoti, o magari un amico di passaggio in città, decidesse o avesse bisogno di fermarsi a dormire una notte o due, be’, il futon nello studio pesa di più del divano in soggiorno. D’altro canto, certe volte la bilancia non pende da nessuna delle due parti, e decidere diventa più complicato. Per esempio, quando un personaggio meno che secondario, diciamo una comparsa, ha un nome a pagina 28 e un altro a pagina 215. In casi simili, me ne lavo le mani: segnalo alla redazione che, se lo riterrà opportuno, chiederà all’autore.

I casi spinosi, veramente spinosi, però sono altri. Per esempio: Tizio si lancia in una filippica sulla cucina etnica e conclude dicendo che, ahilui, quando viveva a Parigi gli mancavano un sacco i ristoranti cinesi, perché ce n’erano davvero pochi – e, se hai vissuto per anni a Belleville, mentre riscrivi pari pari in italiano, ti senti morire. Purtroppo, però, di fronte a cose del genere, il traduttore ha le mani legate. Ingoia il rospo, sapendo che probabilmente anche chi leggerà in italiano, reagirà con un WTF di proporzioni epiche. Ma ehi, non l’ho scritto io, io l’ho solo tradotto.

In definitiva, secondo me, di fronte agli errori dell’originale, bisogna sempre muoversi con cautela: correggere e intervenire quando non c’è margine di dubbio, segnalare e confrontarsi con altri quando il margine di dubbio c’è, e soprattutto evitare di cedere al protagonismo, dimenticando che tradurre non è – o non dovrebbe essere – riscrivere.


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Traduzione, editing, riscrittura

In un mondo ideale, il traduttore traduce. Ma visto che viviamo nel mondo reale, il traduttore può ritrovarsi anche a fare editing quando non addirittura a riscrivere.

Qualche tempo fa, una mia carissima amica redattrice mi ha chiesto: “Ma quando lavori su un testo, tu non controlli che non ci siano castronerie?“. E io le ho risposto: “Sì. O almeno, siccome tutte le volte che inciampo in qualcosa che non so, faccio almeno una ricerchina veloce, se becco l’errore, la svista o che so io, correggo o segnalo alla redazione”. E ho aggiunto che per me è normale, ma non so se e quanto sia prassi.

La verità è che l’argomento è spinoso, per una serie di ragioni.

Tanto per cominciare, ci pagano talmente poco che è già tanto se traduciamo e basta. Tra l’altro, sui nostri contratti c’è sempre scritto che il traduttore si impegna a consegnare un lavoro aderente all’originale e bla bla bla.

E soprattutto, non tutti gli errori sono uguali. Su alcuni si può intervenire a cuor leggero, su altri bisogna andarci con i piedi di piombo. Perché un conto è correggere una svista palese, un altro è fare editing o riscrivere quando nell’originale ci sono incongruenze o palesi buchi di trama.

In questi casi, cosa bisogna fare? Come bisogna muoversi?

In un mondo ideale, bisognerebbe segnalare alla redazione e all’autore e prendere le decisioni assieme. Nel mondo reale, raramente succede – soprattutto perché, in editoria, i tempi sono sempre stretti, si lavora costantemente sul filo del rasoio. Personalmente, senza stare a pensarci troppo, io intervengo e segnalo. Pur sapendo che se un libro è infarcito di errori, per uno che ne becco, ce ne saranno tre che mi sfuggono.

Il punto, però, è un altro. E richiederebbe una riflessione da parte della categoria. Anzi, editori e traduttori dovrebbero proprio sedersi attorno a un tavolo e ridiscutere il concetto di autorialità.

Ecco, piccola parentesi. La traduzione, almeno quella editoriale, rientra nel diritto d’autore. Da un punto di vista giuridico e fiscale, la traduzione è considerata un’opera dell’ingegno. In soldoni, il traduttore è l’autore della traduzione.

Ma nel momento in cui il traduttore si ritrova a dover fare editing o a riscrivere, forse, non è più solo l’autore della traduzione. Ecco perché dico che bisognerebbe ridiscutere il concetto di autorialità, per non parlare del riconoscimento economico – perché, sarà poco romantico, ma non è per la gloria che si lavora, si lavora per pagare l’affitto o il mutuo, le bollette, mangiare, vestirsi, eccetera.


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Le caratteristiche di un buon traduttore

Una volta, mi hanno chiesto quali sono, secondo me, le caratteristiche fondamentali di un buon traduttore. Domanda difficile alla quale ho risposto più o meno: “Conoscere bene la lingua da si traduce, conoscere benissimo la lingua verso cui si traduce, avere una spiccata sensibilità letteraria”. Esattamente in quest’ordine.

Conoscere bene la lingua da cui si traduce è, come dire, un requisito minimo. E mi sembra una cosa talmente ovvia che non mi ci soffermerei più di tanto. Se non per precisare che conoscere bene una lingua non significa capire per grandi linee cosa si sta leggendo/sentendo, quanto cogliere tutta una serie di sfumature, connotazioni, registri e via discorrendo. Ma, ripeto, quello è un requisito minimo.

Mi sembra altrettanto ovvio che bisogna conoscere benissimo la lingua verso cui si traduce. Anche in questo caso, non si tratta semplicemente di scrivere correttamente, senza fare errori di ortografia o di sintassi. Anzi. Significa, almeno per come la vedo io, avere il polso della lingua: afferrarne la duttilità, deviare dalla norma se necessario, sentirne il suono e il ritmo.

Più difficile, forse, spiegare cos’è la sensibilità letteraria, che si interseca, per certi versi, con l’ottima conoscenza della lingua ma la travalica. La sensibilità letteraria, in soldoni, è la capacita di riconoscere subito (o quasi) il tono, la voce, il colore, l’intenzione del testo che stiamo traducendo. Ed è qualcosa che non si insegna, purtroppo. Si tratta di pancia, di istinto, di orecchio, di letture, di bagaglio – tutte cose che dovremmo coltivare e costruirci pian piano.

Prendiamola da un’altra prospettiva.

Per colmare le lacune che riguardano la conoscenza della lingua dalla quale traduciamo, possiamo affidarci a tante risorse. In primis, il dizionario – anzi, i dizionari. Peccato che, almeno è questa l’impressione che ho, il dizionario viene ormai considerato un nemico più che un valido alleato. Non so se per pigrizia o per tracotanza – me lo chiedo quando mi imbatto in bastoni da rabdomante (sourcier, in francese) trasformati in bacchette magiche (sorcier, mago, in francese), ma vabbè. Aggiungo: a tutti capita di fare degli errori, di prendere fischi per fiaschi – io, per esempio, non azzecco mai i numeri, sono quella che trasforma diciassette (senventeen) in settanta (seventy) o cinquanta (fifty) in quindici (fifteen), però poi il revisore – in teoria – se ne accorge e ci mette la pezza.

Per colmare le lacune di base che riguardano la conoscenza della lingua verso la quale traduciamo, idem. Grammatiche e manuali non mordono. Sfogliarli, in caso di dubbio, non farebbe male. Anche questa pratica, però, mi sembra caduta in disuso – diversamente non leggeremmo periodi dove la consecutio pare se la siano dimenticata a casa.

E per coltivare la sensibilità letteraria? Be’, là c’è poco da fare. Bisogna ascoltare e leggere, tanto, tantissimo, di tutto, e in entrambe le lingue. Qui, davvero, tutto fa brodo – o bagaglio. E tutto, a un certo punto, quando meno ce lo aspettiamo, ci tornerà utile. La sgrammaticatura del tipo che era in fila alle poste davanti a noi, l’espressione colloquiale usata dal concorrente di un reality, la battuta di dialogo che abbiamo sentito guardando un film, il termine desueto che ci è capitato sotto agli occhi mentre leggevamo un classico in una traduzione dell’anteguerra.

Senza queste tre caratteristiche, in definitiva, produrremo traduzioni in un italianetto stirato e inamidato (questa formula è di Yasmina Mélaouah, che non ha bisogno di presentazioni, e io l’adoro e la uso ogni volta che posso), facendo un pessimo servizio ai libri e soprattutto ai lettori.


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La traduzione è un lavoro di squadra

Si parla tanto della solitudine del traduttore, eppure la traduzione è un lavoro di squadra.

Certo, nel momento in cui un editore mi affida un libro, io so che passerò giorni, settimane, mesi, da sola, alla scrivania, davanti al pc, con l’originale in PDF da una parte e il documento di Word nel quale, piano piano, prende forma la mia traduzione dall’altra. E, a pensarci bene, già in quella fase, non sono propriamente da sola, visto che a tenermi compagnia c’è una discreta folla: l’autore, il narratore, i personaggi. Però, sì, è vero, quella è indubbiamente la fase del lavoro solitario.

Solo che non finisce lì. Perché nel momento in cui io invio il file all’editore, entrano in scena nuove figure.

Prima di tutto, arriva il revisore che, bontà sua, rileggerà la mia traduzione con l’originale a fianco, e sicuramente beccherà errori, sviste, calchi, ripetizioni, giri di frase infelici, e via discorrendo. Fase cruciale, questa, che può essere paradisiaca o infernale. Di base, però, finita la revisione, la traduzione è quasi sempre migliore di quanto non fosse prima: perché quattro occhi, quattro mani e quattro teste funzionano meglio di due.

A quel punto, la palla passa all’editor, che ha giustamente diritto di parola e di intervento. Per ultimi, vengono i correttori di bozze che, oltre ai refusi, potrebbero beccare – e segnalare – anche altro.

Questo, ovviamente, nel mondo ideale – anzi, nel mondo dell’editoria seria, che ancora si cura della qualità del prodotto finale. Perché, ahimè, capita anche che si saltino passaggi fondamentali – e vengono stampati, distribuiti e venduti libri sciatti, pieni di brutture, che fanno sanguinare gli occhi ai più.

La revisione, in particolare, è un diritto inalienabile del traduttore – al quale, spesso, il revisore bravo, attento e scrupoloso, salva il cosiddetto, mentre altri tipi di revisore lo mandano dritto alla neuro – di questo, però, parlerò in un altro post. Ma la revisione è anche un diritto inalienabile del lettore che, in virtù del fatto che il libro lo compra e lo paga con moneta sonante, merita di trovarsi per le mani, un prodotto curato, non tirato via.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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Dire quasi la stessa cosa

Tradurre non è tradire. Forse lo è stato un tempo, ma le cose sono cambiate, e ostinarsi a usare questa formula, per me, non ha molto senso. Semmai, tradurre è dire quasi la stessa cosa – sì, il titolo del saggio di Umberto Eco era azzeccatissimo. E la chiave di tutto è chiaramente il quasi.

Tanto per cominciare, bisognerebbe intendersi una volta per tutte sul significato da attribuire al termine fedeltà. A cosa deve – o dovrebbe – essere fedele una traduzione? Alla lettera? O piuttosto allo spirito, alla carne e all’intenzione del testo dell’originale?

Facciamo un esempio, prendendo una banalissima espressione idiomatica inglese: it’s raining cats and dogs. Sappiamo tutti cosa significa. Bene, in nome della fedeltà alla lettera, in italiano, dovremmo dire: piovono cani e gatti – anzi, forse perfino stanno piovendo cani e gatti. E saremo tutti d’accordo nel pensare che no, no e ancora no, nemmeno Google Translate. Giusto?

In realtà, dobbiamo semplicemente chiederci: cosa significa quella espressione? E poi trovarne una, in italiano, che dica – appunto – quasi la stessa cosa.

Piove a catinelle, piove a secchiate, piove che dio la manda – eccetera. Cambiano le parole, ma sarebbero tutte traduzioni fedeli. Perché, in italiano, significano proprio quella cosa. Certo, come dicevo parlando di the school of hard knocks, una non vale l’altra – è sempre il contesto a suggerci quale sia la scelta migliore, quella più intonata.

Ovviamente la realtà non è così semplice, e i nodi da sciogliere spesso sono ben più intricati.

Facciamo un altro esempio, stavolta dalla vita vera, cioè da un libro che mi è capitato di tradurre di recente.

Sometimes the metaphorical significance of a random event startles with its application to your life.

E ora, un po’ di informazioni sparse che servono a contestualizzare. Tanto per cominciare, si tratta dell’incipit di un romanzo. Romanzo di intrattenimento che, perciò, deve essere prima di tutto scorrevole e brillante – nei limiti del possibile.

Proviamo a tradurla parola per parola, in stile versione di latino: Certe volte, il senso metaforico di un evento casuale ti colpisce per come si applica alla tua vita – more or less. Direi che, messa così, urla Google Translate da tutti i pori, no?

Ora tentiamo di migliorare l’italiano, magari. Anzi no, perché questo modus operandi, per come la vedo io, genera mostri. E io lo evito come la peste – salvo in rarissimi casi, quando ho bisogno di fare quell’operazione lì, di scomporre la frase, per coglierne il senso.

È sconvolgente come, alle volte, un evento del tutto casuale si riveli una perfetta metafora della vita.

Io ho tradotto così. E ho tradotto così in prima battuta, senza starci troppo a pensare. Certo, mi direte, hai anticipato, dislocato, trasformato verbi in aggettivi, e chissà che altro. Certo, vi risponderò, era necessario. Prima di tutto, perché l’inglese e l’italiano sono due lingue diverse, e la sintassi dell’una non è sovrapponibile a quella dell’altra. Ma anche perché io dovevo partorire qualcosa che filasse in italiano, che non puzzasse di traduzione lontano un miglio, ma che suonasse naturale e avesse ritmo.

È una traduzione fedele? Sì, abbastanza. Poteva essere più fedele? Probabilmente sì. Ma a che prezzo? Al prezzo di allontanarsi dalla cosa più importante, ovvero dall’intenzione del testo – ma di intenzione parlerò in un altro momento.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.

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The school of hard knocks

Quando si traduce, e soprattutto quando si traduce narrativa, si è continuamente costretti a fare delle scelte, con la consapevolezza che ogni volta, per forza di cose, si perde qualcosa – ma anche che ogni eventuale perdita può essere riequilibrata da un guadagno.

In un romanzo che ho tradotto di recente, a un certo punto, mi sono trovata a dover decidere come rendere in italiano un’espressione idiomatica che, di primo acchito, non è nemmeno particolarmente ostica o problematica. Ma, come si dice, il diavolo sta nei dettagli.

L’espressione era the school of hard knocks. Nessuna difficoltà di comprensione per chiunque mastichi un po’ l’inglese, ma anche svariate possibilità di resa in italiano.

Piccola parentesi: di fronte a un’espressione idiomatica, secondo me, la cosa da NON fare mai è consultare il dizionario bilingue, per evitare di adagiarsi su soluzioni pigre e grigie.

Il Ragazzini, ottimo dizionario, usato da tanti valenti traduttori suggerisce, per the school of hard knocks, questa traduzione: “la dura scuola dell’esperienza personale”. Utilissimo per chi vuole capire cosa significhi, e fine.

Meglio, per come la vedo io, consultare un dizionario monolingue (magari anche più di uno) e poi cercare l’equivalente italiano all’interno del nostro bagaglio linguistico personale.

Il Cambridge dà questa definizione: “If you learn something in the school of hard knocks, you learn it as a result of difficult or unpleasant experiences”. E il Collins quest’altra: “the experience gained from living, esp. from disappointment and hard work, regarded as a means of education”. Pochi dubbi sul senso, no?

Wikipedia dedica addirittura una paginetta a questa espressione idiomatica, offrendo ulteriori spunti di riflessione – e di confusione. Dice infatti: “The School of Hard Knocks (also referred to as the University of Life or University of Hard Knocks) is an idiomatic phrase meaning the (sometimes painful) education one gets from life’s usually negative experiences, often contrasted with formal education”. E poi: “It is a phrase which is most typically used by a person to claim a level of wisdom imparted by life experience, which should be considered at least equal in merit to academic knowledge. It is a response that may be given when one is asked about their education, particularly if they do not have an extensive formal education but rather life experiences that should be valued instead. It may also be used facetiously, to suggest that formal education is not of practical value compared with ‘street’ experience”.

E quindi? Come lo traduco in italiano?

La traduzione non è una scienza esatta, non sempre 2+2 fa 4 e, in casi come questo, le possibilità non sono infinite ma sono sicuramente numerose.

A me, infatti, erano venute in mente diverse opzioni: l’università della vita, la scuola della strada, un bagno di vita vera, la scuola delle pizze in faccia, la scuola dei calci sui denti.

Solo che, purtroppo, una soluzione non vale l’altra, perché ci sono tante variabili da considerare, ed è lì che bisogna riflettere, valutare, scartare e, infine, decidere.

Ho immediatamente scartato l’università della vita perché in un’epoca post-Facebook e post-tante-altre-cose, la trovo troppo connotata – e non in senso positivo.

Ho scartato anche la scuola della strada perché mi porta a contesti urban, se non addirittura urban-ghetto, a un immaginario street e hip hop – e no, non funziona nel mio contesto.

Ho rinunciato a un bagno di vita vera, anche se credo renda benissimo il senso, perché mi sembra una soluzione un po’ mogia, e io avevo bisogno di qualcosa di più colorato, vivace. Ma è un’opzione che mi sono tenuta da parte, come alternativa, nel caso in cui la mia scelta fosse contestata in fase di revisione.

Ho subito lasciato perdere la scuola di pizze in faccia, omaggio a Zerocalcare, che anche solo per questo risulterebbe stonata, tanto più che pizze, in quel senso là, ha ancora una forte connotazione regionale/locale.

Ho scelto la scuola dei calci sui denti, alla fine, pur consapevole che è un pelo più strong di quanto non sia the school of hard knocks – ma, del resto, quegli hard knocks non sono nemmeno carezzine sulla guancia, no?

Per una serie di ragioni, mi è sembrato fosse la soluzione più adatta al mio contesto, e non solo per esclusione. Il personaggio che pensa – ma non dice ad alta voce – che la figlia adolescente avrebbe bisogno di un po’ di school of hard knocks, perché è stata cresciuta nella bambagia, in una torre d’avorio, ed è totalmente scollegata dalla realtà, ha un passato da alcolista violento, e in più occasioni si lascia sfuggire pensieri un po’ al limite.


DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.