Tradurre significa, tra le altre cose, non cadere nei tranelli – che sono ovunque.
Ecco quindi un esempio di tranello nel quale ho rischiato di cadere, peraltro con tutte le scarpe.
L’infame è il termine cordial.
Contesto: c’è un bambino di circa sette-otto anni che partecipa agli aperitivi danzanti organizzati dai genitori e si bea nel vedere come si divertono, mentre sorseggia un lukewarm lime cordial. Mia reazione, peraltro un po’ troppo giudicante: Irresponsabili che fate bere alcol a un bambino di quell’età. Peccato che quel cordial non corrisponda al nostro cordiale e non sia una bevanda alcolica.
Alla voce cordial, il Merriam Webster rimanda al lemma liqueur che viene definito: a usually sweetened alcoholic liquor (such as brandy) flavored with fruit, spices, nuts, herbs, or seeds. Ma il Cambridge fa una precisazione, e sempre alla voce cordial, rimanda pure lui al lemma liqueur per l’uso americano, dando invece un’altra definizione per l’uso britannico: a sweet drink made from fruit, to which water is usually added; lime cordial.
Cerchiamo quindi di capire cos’è esattamente questo lime cordial: a non-alcoholic drink, made by mixing concentrated lime juice and sugar with water. Ottimo.
Ora, siccome Wikipedia non è la bibbia, vediamo di trovare conferme. Spulcio qualche ricetta – che non contempla l’uso di alcol – e poi trovo un articolo significativamente intitolato Cordiali e cordials: quella lettera che fa la differenza.
Insomma, il bambino non rischia di sprofondare in un alcolismo precoce per colpa dei genitori irresponsabili; sta semplicemente sorseggiando uno sciroppo al lime.
Mi viene da dire solo: Grazie mamma che mi hai fatto troppo giudicante, visto che questa cosa, spesso, mi salva dal prendere granchi grossi così.
DISCLAIMER: I miei post non hanno la presunzione di rivelare la verità assoluta. Sono solo riflessioni di una traduttrice tra tante. Dicono qualcosa del mio approccio a questo lavoro, che non è l’unico e – soprattutto – non è necessariamente quello migliore. Ma tant’è.